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INTERVISTA A DANIELE MASTROGIACOMO

 
     
 

Questa breve intervista sul mestiere di inviato di guerra e sul suo futuro - realizzata per la mia tesi di diploma alla Scuola di Specializzazione di Tor Vergata - é il frutto di una conversazione telefonica che ebbi con Daniele alla fine del 2003, mentre si trovava per il suo giornale in Israele. Da “tutor” aveva seguito me e gli altri studenti del corso per tutto il primo anno. Quel giorno di fine novembre, malgrado non ci sentissimo da mesi, non si fece problemi    e sebbene fosse “piuttosto impegnato”, trovò il tempo per rispondere alle mie domande.

Ho deciso di mettere in rete queste sue parole quale personale “augurio di pronto ritorno” per Daniele, ma anche quale contributo a una migliore conoscenza del lavoro di tutti quei colleghi che, in giro  per il mondo, rischiano la vita per amore di questa professione e rispetto dei loro lettori.

Daniele, pensi che questo mestiere abbia ancora un futuro?

Questo mestiere non terminerà mai, resterà sempre in vita, anche     se subirà delle profonde trasformazioni. E ciò, in fondo, è anche un bene perché non si può rimanere ancorati alla tradizione e al     passato. Oggi esistono molte fonti di comunicazione, c’è internet, ci sono le agenzie, le tv ,le radio, per non parlare dei “free lance”, giovani    inviati che incontro in giro per il mondo. Questo mestiere è sempre   più variegato, bisogna riuscire ad adattarsi ai cambiamenti e capire   di  cosa ha bisogno il lettore. Ormai si punta a un’informazione   immediata, ma che nello stesso tempo preveda l’approfondimento.   Per questo il giornalista ha bisogno di studiare     di più, di prepararsi sempre meglio.

Ma non c’è la tendenza da parte degli editori a tagliare gli     inviati per ridurre i costi?

Questo è senz’altro vero, proprio perché la tecnologia consente di avere informazioni quasi in tempo reale e di raccoglierle in tutto in mondo; questo porta l’editore, per problemi di costi, a tagliare le  spese per gli inviati. Anzi, questa figura tendenzialmente è destinata a scomparire, almeno contrattualmente, perché svolge un lavoro che   è del tutto diverso da quello di desk. Oggi il giornale è curato nei particolari, è pieno di didascalie, di “infografiche”, forse anche    troppo, e questo è un lavoro di “cucina”, estremamente puntiglioso, da fare in redazione. L’inviato, invece, scrive il pezzo, ma occupa  soltanto un paio di colonne, certe volte metà pagina, una pagina proprio in casi eccezionali. La sua figura resisterà, ma sarà sempre   più marginale, per problemi di costi e di costruzione del giornale.

Cosa pensi di quei colleghi che durante l’ultima guerra in Iraq, hanno lavorato all’interno delle colonne che andavano verso Baghdad? Si riesce a essere obiettivi anche in questi casi?

Di solito, in certe situazioni, non ci sono delle grosse forme di  censura, anche se possono esistere dei fortissimi condizionamenti dovuti alle pressioni che ti arrivano dall’esterno. Quindi, al di là della tua volontà, il tuo lavoro diventa, per forza di cose, limitato.      Mentre nella prima guerra del Golfo, quella del ‘91, tutto si vedeva     attraverso la televisione e comunque gli inviati che stavano sul    posto erano nel grosso centro del comando e quindi non andavano   sul campo, questa volta è stata fatta una scelta differente dal    punto di vista della strategia di comunicazione. La Casa Bianca, il Pentagono, hanno deciso di dare maggiore forza mediatica al loro intervento in Iraq. Da una parte il giornalista è attirato da questa possibilità, “potrò stare al fronte” pensa, nello stesso tempo è “protetto” dalle forze americane e sa benissimo che poi i militari le cose vere, le vere notizie , ciò che avviene realmente, tentano di   non fartelo vedere. Il giornalista allora è costretto a utilizzare     queste fonti, tentando però di verificarle in altro modo. Se fossi il direttore di una testata, approfitterei di questa possibilità,    mandando nello stesso tempo un altro mio inviato dall’altra parte.   Non mi sognerei mai di rinunciare a questa offerta, anche se è evidente che i militari ti offrono questo per avere in cambio un   ritorno. Si cerca sempre di non cadere nel tranello, ma è anche    chiaro che in qualche modo si descrive quello che si vede e, quindi, quello che ti fanno vedere loro.

Nella tua professione ti capita mai di avere paura?

Io ho paura. Bisogna sempre avere paura, averne non significa    essere un codardo. La paura è un sentimento umano del tutto comprensibile, è la paura stessa che ti consente di essere cauto.      Il timore ti invita alla cautela, la cautela ti porta ad agire in modo intelligente. L’esperienza è poi quella che ti fa capire quando una    cosa è molto pericolosa e quando, invece, è importante essere sul posto e certi tuoi timori, forse, sono eccessivi. Una cosa è certa:   non vale mai la pena di rischiare la morte.

 

 

 

 

 
     
  
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