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“Avevo
spremuto l’Impressionismo quanto più potevo ed ero giunto
alla conclusione che non sapevo né disegnare né dipingere.
In una parola, l’Impressionismo era, per quanto mi
riguardava, un vicolo cieco”. Con queste parole Pierre
Auguste Renoir, uno dei padri della pittura en plein air,
nel 1880, sanciva la propria crisi pittorica e mostrava la
necessità di cambiamenti decisi all’interno di un percorso
artistico che fino a quel momento non era uscito
dall’ambiente impressionista.

La
svolta arriverà l’anno successivo, quando tra l’ottobre del
1881 e il gennaio del 1882, Renoir si deciderà al viaggio
che cambierà la sua vita, visitando tutta l’Italia, da nord
a sud, da Venezia alla Sicilia; qui ritrarrà Wagner che vi
aveva appena portato a compimento il “Parsifal” (una replica
di questo celebre dipinto è in esposizione al Vittoriano).
Un evento, questo viaggio, che cambierà la sua vita e il suo
modo di dipingere, riflettendo nella sua produzione futura
gli esempi dell’arte italiana classica, e di Raffaello in
particolare. Un’esperienza che oggi viene raccontata nella
mostra “Renoir. La maturità tra classico e moderno” al
Complesso del Vittoriano di Roma* attraverso circa 130 opere
tra oli, dipinti su carta e sculture.
Un
percorso che vuole indagare gli sviluppi artistici di un
autore che è sempre, e soprattutto, stato considerato uno
dei principali protagonisti dell’Impressionismo,
ricostruendo i quaranta anni conclusivi di una carriera che
certamente non si è fermata alla pittura en plein air.
“Se negli anni settanta del XIX secolo – spiega Kathleen
Adler, storica dell’arte e curatrice della mostra –
l’attenzione alla rappresentazione della vita moderna,
tipica dell’impressionismo, fu per Renoir una priorità, nel
periodo successivo i suoi interessi subirono un mutamento
sostanziale”. E non si può non notare, continua la Adler,
“quanto breve sia stata la parentesi impressionista rispetto
ai lunghi anni consacrati all’elaborazione di una
rappresentazione in chiave moderna dell’eterno e
dell’atemporale”.
Tutto
ciò non può certamente farci dimenticare che comunque
l’Impressionismo è stato un momento fondamentale nella vita
artistica di Renoir, come ben rappresentato da quella estate
del 1869 quando, insieme a Monet, dipinsero per l’intera
stagione la vita che ferveva a La Grenouillère, la popolare
località di villeggiatura sulla Senna dove i due artisti si
recavano nei fine settimana per nuotare, mangiare al
ristorante galleggiante sull’isola detta “Camembert” e
godersi le delizie del paesaggio. Furono i dipinti di questa
stagione, en plein air e sur le motif a dare
una definitiva espressione alla definizione di
Impressionismo.

Non è
però questo il momento pittorico che la mostra vuole
evidenziare, quanto invece quello classico degli ultimi
quaranta anni di Renoir, la sua fascinazione per Raffaello,
per i suoi affreschi al Palazzo della Farnesina e per quelli
romani di Pompei ed Ercolano che ebbe modo di studiare al
Museo Nazionale di Napoli. In quei quattro mesi in giro per
l’Italia Renoir iniziò a guardare di nuovo all’arte del
passato, spaziando per tutto l’arco temporale compreso tra
le opere pittoriche di Pompei fino a Ingres. L’entusiasmo
per l’arte italiana esplose poi a Roma, dove a sorprenderlo
fu anche lo splendore di una luce che proiettava le forme in
forte contrasto contro il cielo. Da qui, in Renoir si fece
strada la convinzione che l’Impressionismo non avrebbe mai
potuto raggiungere la monumentalità e l’eternità dell’arte
italiana. Da allora l’artista si allontanò dalle scene
tratte dalla vita parigina, iniziando a riprodurre nudi
femminili caratterizzati da sensualità cromatica e fisica.
La sua attenzione si appuntò sempre più sulla bellezza
femminile al punto di dire: “So che un quadro è finito
quando mi viene voglia di fargli una carezza sulle natiche”.
E
saranno proprio le morbide carnosità delle donne
raffaelliane quelle che ispireranno le sue Bagnanti, un
filone copioso di tutta la sua produzione, una visione
grandiosa e opulenta della realtà femminile. In mostra la
Bagnante bionda può essere paragonata, avverte la
storica dell’arte Maria Teresa Benedetti, “alle robuste
Veneri di Raffaello e della sua scuola, ammirate
dall’artista nella Loggia di Psiche alla villa Farnesina a
Roma”. Quest’opera di Renoir venne eseguita su di un
battello nel Golfo di Napoli, in pieno sole, e ritrae la
seconda moglie, Aline Charigot. “Le forme della donna –
racconta la Benedetti – si distaccano nettamente dal fondo
anche se i contorni non sono rigidamente lineari, il
modellato è, come sempre, ottenuto per mezzo del colore. Dei
blu puri indicano le pieghe dell’asciugamano – continua la
storica dell’arte -, ma sono sfumature collegate fra loro e
poste in rapporto con la solare luminosità delle carni,
chiaramente delimitate dal contrasto con toni più freddi e
più scuri. L’immagine, nel suo insieme, è dotata di una
presenza fisica imponente, lo sguardo della donna sembra
superare l’osservatore, quasi a stabilire una distanza. In
questa opera – conclude la Benedetti – Renoir ha certamente
in mente gli affreschi romani del Maestro di Urbino”. Sulla
stessa lunghezza d’onda anche John House, membro del
comitato scientifico e commissario internazionale della
mostra: “Gli affreschi di Raffaello alla Farnesina e le
pitture di Pompei ed Ercolano furono per Renoir una vera e
propria rivelazione. La lezione che ebbe modo di apprendere
in Italia, la conservò per tutta la sua vita”.
Insomma, come ha voluto chiosare la curatrice Kathleen
Adler, citando una frase tratta da una cartolina di Freud
dall’Italia, “Renoir ricevette così tante impressioni e
sensazioni da questo viaggio che gli bastarono per una vita
intera”. D’altra parte è Renoir stesso, scrivendo nel
febbraio del 1882 a quella Madame Charpentier a cui aveva
dedicato un suo celebre quadro, a parlarci di Napoli come di
“un Museo all’aperto”, delle “pitture di Pompei” e di
Raffaello che lo aveva completamente conquistato,
concludendo che “guardando molto, credo potrei conquistare
la grandezza e la semplicità dei pittori antichi”.
Non
sono però sotto la lente di ingrandimento della mostra
soltanto le esperienze maturate durante il viaggio in
Italia, ma anche la straordinaria varietà e diversità di
tecniche e soggetti scelti dall’artista nella sua opera.
Splendidi dipinti che presentano nature morte, paesaggi,
immagini di donne, fanciulle e madri, raffigurate nei gesti
della quotidianità, figure di bambini e rappresentazioni
dell’uomo naturale secondo Renoir. Il fascino della
natura si rivela in ogni particolare delle tele: dal mazzo
di rose poggiato sul pianoforte ai pesci sul vassoio pronti
per essere cucinati, fino ai magnifici paesaggi tra il sud
della Francia e la regione della Champagne. Nell’ultimo
periodo della sua vita Renoir avrebbe confessato al suo
mercante d’arte, Ambroise Vollard: “C’è chi ama il nuovo,
mentre io sono tra coloro a cui piace il vecchio: vetusti
affreschi gioiosi, arazzi dei secoli passati, ceramiche
antiche e quant’altro”.

Gli
ultimi suoi anni di vita furono quindi caratterizzati da una
adesione alla visione pittorica dei gradi classici, Rubens e
Tiziano in testa, giungendo a rappresentare, insieme alla
sempre più frequente scelta di soggetti mitologici, il
momento più avanzato in quel processo di progressivo
allontanamento dall’estetica moderna che aveva
caratterizzato la pittura di Renoir fino agli inizi degli
anni Ottanta. Tutta la sua filosofia artistica di quegli
ultimi quaranta anni la si trova racchiusa nelle parole che
il grande Maestro pronunciò di fronte al poeta Joachim
Gasquet: “Che creature meravigliose i greci, la loro vita
era così felice che immaginavano che gli dei, per trovare il
paradiso e l’amore, scendessero in terra. La terra per loro
era il paradiso degli dei, ed è questo che voglio
dipingere”.
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*Roma –
Complesso del Vittoriano, Via San Pietro in Carcere, fino al
29 giugno. Orario: lun./gio. 9.30-19.30, venerdì e sabato
9.30/23.30, domenica 9.30/20.30. Catalogo Skira.
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