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PAOLO GIORGI E LA MODERNA INATTUALITÀ DI UN PITTORE INTIMISTA

 
     
 

Toscano di Grosseto, 67 anni ben portati, autodidatta, non guida, non possiede il cellulare, non segue i ritmi e le mode della società consumistica, definisce la sua esistenza come quella di un “vietnamita che nella boscaglia sopravvive con un pugno di riso”. In più, ama trascorrere le giornate nel suo appartamento, vittima della sua “vocazione alla prigionia”, rinchiuso in una casa che non è solo il suo studio, ma l’universo-spazio in cui costruisce e modella i suoi dipinti, con un’attenzione spasmodica per il “mestiere”, per quella tecnica che considera imprescindibile per chi voglia definirsi  pittore. E pittore intimista si sente Paolo Giorgi, al punto che quasi tutte le sue opere hanno come protagoniste sua moglie e sua figlia. Alla sua scarsa considerazione per l’arte contemporanea unisce l’amore per i grandi autori del passato, italiani e fiamminghi, con una particolare predilezione per il senso di meravigliosa e meravigliata cristallizzazione del tempo contenuto nelle opere di Jan Vermeer, il grande pittore olandese di cui Giorgi non fatica a sentirsi “debitore”.

 

Maestro, da cosa nasce la sua critica verso gli artisti contemporanei?

Innanzitutto io non li critico, li disprezzo. E non voglio essere confuso con certi eccessi smodati e ridicoli che siamo costretti spesso a vedere e a subire. Il vero artista, il vero pittore, vive del suo mercato, quando fortunatamente per lui ce l’ha, mentre l’arte moderna e contemporanea vive dell’Erario. È molto difficile trovare nella casa di un privato un’opera di un autore di oggi, soprattutto italiano, però se si va in un museo, ad Amsterdam ad esempio, si incontra, accanto alle opere di Van Gogh, quelle di qualche “grande eroe nostrano”, una presenza figlia della rete di rapporti, del “giro” esistente tra direttori di musei. La famosa “gente”, nella quale comprendo anche quella provveduta, che frequenta chilometri e chilometri di “macerie” alla Biennale di Venezia o alla Documenta di Kassel, lo fa per dire: “Ci sono stato”. Ma sono soltanto chilometri di noia insopportabile.

Proprio nessun autore contemporaneo l’ha mai interessata?

Soltanto Francis Bacon e Lucian Freud hanno suscitato la mia attenzione, ma sono stati degli amori intellettuali, le mie passioni finiscono con la grande classicità.

Dei maestri del passato mi ha spesso colpito la tecnica con cui lavoravano, perché, amando io soprattutto il “mestiere”, penso che sia importante per un artista saper disegnare bene. Se poi a questo si aggiunge anche la genialità, allora meglio ancora. Ed è grazie a questo mio “mestiere” che ho potuto fare tanti ritratti, lavorare tanto intensamente su committenza, come per le “Quattro stagioni”, recentemente commissionatemi da Paolo Bulgari ed esposte nel febbraio dello scorso anno presso la sede romana della Banca Esperia.

Non vede un futuro roseo per chi vuole dipingere, allora?

Tenere un pennello in mano è considerato un vero e proprio delitto. Oggi i grandi quotidiani quasi mai recensiscono un pittore, ma soltanto autori che, nella loro massima espressione, posso considerare dei passabili scenografi. Ormai i media hanno sposato questa causa, la visibilità è tutto e quindi poco resta da fare. Almeno per me, essere fuori da questo “correntone”, da questa orgia stupida e becera, può essere addirittura lusinghiero. Se in più aggiungiamo che sono una persona, in senso filosofico, assolutamente inattuale - visto che non guido, non ho il telefonino - di essere fuori da tutto questo sono ben contento. Insieme a mia moglie – anche lei non guida – ci sentiamo un po’ come dei “vietnamiti” nella boscaglia: finché c’è il riso, campiamo.

Lei sta forse dicendo che la pittura è destinata a scomparire nel nostro Paese?

Assolutamente no. Anzi, l’Italia, e aggiungerei anche la Spagna, sono due isole felici, per quanto riguarda il numero di talenti pittorici a disposizione. Con il grave limite però che questi stessi talenti in alcuni casi sono molto molto “sotterranei” perché il crimine maggiore per un artista oggi, anche in questi due Paesi, è, comunque e sempre, quello di usare i pennelli.

Da qui ne discende in maniera naturale la sua ricerca di modelli di riferimento nel passato e in Jan Vermeer in particolare. Cosa l’ha colpita del grande maestro di Delft?

Innanzitutto il fatto di essere stato un grande intimista che dipingeva, all’interno di casa sua, figure femminili che pare fossero la moglie e le figlie. Da parte mia ho quasi sempre dipinto solo mia figlia e mia moglie e poi gli interni della casa in cui vivo: librerie, mobili, tappeti. Mi sento quindi anche io un pittore intimista, in questo aiutato da quella che sono solito definire la mia vocazione alla prigionia all’interno della mia casa.

Parliamo ora un po’ della sua vita. Ha saputo fin da piccolo che un giorno sarebbe divenuto un pittore?

No, direi di no. L’incontro si è realizzato in maniera molto romantica e inattuale. Io sono un orfano precocissimo che non ha potuto evitare il servizio militare. In quel periodo mi sono ammalato di tubercolosi, una patologia elettiva, visto che a metà Ottocento è stata a lungo considerata la malattia degli artisti. Venni inviato in una casa di cura ai confini con la Svizzera. E qui sentii questa forte attrazione che mi portò a ottime letture come “La montagna incantata” di Thomas Mann. D’altra parte lì di tempo ne avevamo parecchio a disposizione, stava a ciascuno di noi decidere se perderlo o utilizzarlo. Chi sceglieva questa seconda ipotesi poteva dedicarsi a varie attività: io un giorno, scendendo a valle, acquistai delle tele e un po’ di colori. Ho iniziato così, senza mai fare una scuola o un’accademia e, malgrado il mio molto lavorare e poco produrre, la mia assoluta assenza di compromessi seri e il mio pessimo carattere, sono riuscito a costruirmi una mia “piccola fortuna” in campo pittorico. Ciò è potuto accadere anche grazie al fatto che ho una certa stima di me stesso e non vendo fumo. Per questo ho sempre cercato di lavorare fuori dalla “canizza”, anche se poi le mie opere sono presenti in alcuni luoghi importanti come la collezione della Farnesina e ho avuto tre inviti alla Quadriennale. Non mi lamento quindi della mia personale sommatoria carattere-attività. Tornando alla “Montagna incantata”, sull’opera di Mann ho fatto un ciclo di dipinti molto grandi che ha costituito il momento di svolta della mia carriera artistica, attirandomi per la prima volta l’attenzione della critica più provveduta al mio lavoro. Quei grandi quadri che ho dipinto in omaggio a quel grande libro sono stati l’inizio di quella che ho già definito la “piccola fortuna”.

 

Mi sembra di capire che da subito a iniziato a dipingere.

No, assolutamente no. Mi sono immediatamente accorto di quanto fosse difficile lavorare su una tela, ho ben presto quindi lasciato pennelli e tavolozza e mi sono messo a disegnare, soprattutto i grandi maestri del passato, come Raffaello, David. Questo per molti anni, in una sorta di apprendistato che mi ha portato poi al mio primo quadro, commissionato da un grande albergo toscano, nel 1971, e ispirato, come farò poi sempre nel corso della mia vita artistica, da uno dei miei grandi amori, Jan Vermeer e dal suo “Pittore nell’atelier”. In questa opera io ritraggo me stesso che ritrae se stesso che ritrae se stesso, e colloco uno dei miei primi tappeti, dando il via a una consuetudine, quella appunto di dipingere tappeti, che mi ha accompagnato negli anni.

Perché a un certo punto della sua vita ha scelto di trasferirsi nella capitale?

L’ho fatto nella seconda metà degli anni Settanta quando mi sono accorto che per dipingere la provincia mi andava stretta. I primi anni sono stati orrendi, come quel giorno in cui uscì per la prima volta il quotidiano “la Repubblica” e dovetti scegliere se comprarlo al posto di un rosso di cadmio o di un panino, al costo di cinquecento lire. Queste ristrettezze erano dovute anche al fatto che pagavo l’affitto per una piccola casa, molto carina, in via dei Coronari che ho poi abbandonato nell’84 quando è nata mia figlia per trasferirmi qui, nei pressi di viale Liegi, dove ora vivo e ho il mio studio.

Cosa le ha dato Roma?

Un grande cambiamento, almeno in una persona come me che ama stare in casa: col tempo ho iniziato a guardarmi intorno, a osservare questa città, cosa che non avevo fatto prima, e a dipingere qualche quadro su Roma. Improvvisamente, questa “cosa” che mi ospitava non mi era più estranea, non era più soltanto un’entità pragmatica e tumultuosa, forse per la prima volta la sentivo casa mia.

Resta legato alle sue origini?

Sì, ma preferisco essere cittadino del mondo, pur riconoscendo le vette artistiche insuperabili di città come Firenze e Siena, o i “Grandissimi” lì nati. Due anni fa ebbi un amore turbinoso per il Ghirlandaio che ho scoperto all’improvviso, dopo una lettura casuale. Poi è passato.

L’essere toscano ha influito sulla sua arte?

Penso di sì perché c’è molta “terra di Siena” nel mio lavoro, c’è la maniera leonardesca di usare le velature. In più, per me che sono un patito del  “mestiere”, la buona tecnica nasce tra la Fiandre e la Toscana. Se fu infatti Jacopo de’ Barbari a portare la pittura ad olio in Italia, sono stati poi i toscani, basti pensare al Michelangelo del “Tondo Doni” e a Sandro Botticelli, che hanno elevato, quello che mi piace definire il “mestiere”, ad altissimi livelli. Oltre a essere dei geni, sapevano fare tutto, un mazzo di fiori come un ritratto o un mare in tempesta.

Cosa deve accadere perché Paolo Giorgi si metta davanti al cavalletto e dipinga?

Sono un artigiano indefesso, non ho ispirazione, sono uno che lavora costantemente, ma affrontando grandi difficoltà tecniche, per cui produco poco. Gli scatti di interesse ci sono, ma sono molto rari, in compenso ci sono quadri che stanno lì, non finiti e da cui aspetto “un segnale” per riprendere a lavorarci.

Che rapporti instaura con le sue opere?

È un grande agone, ma non sono delle nemiche.

Quando se ne separa, soffre?

No, no, assolutamente. Anzi, è la mia più grande felicità. Secondo me, nel 2007, un pittore è tale se vende i suoi quadri. Studiando le lettere di Van Gogh al fratello Theo, mi sono reso conto di quanto deve essere stato per lui terribile e angoscioso non riuscire a vendere i suoi quadri pur avendo un fratello che era un grandissimo gallerista. D’altra parte Van Gogh è soltanto nei nove anni finali della sua vita che diventa quello che conosciamo, bruciando in così poco tempo tutta la sua vena artistica. Come Gauguin che, se non fosse andato a Tahiti, sarebbe rimasto un pittore come tanti altri. L’esotismo carnale che scopre lì, invece, quell’altrove fantastico che dipinge con i suoi totem in Polinesia, tutto ciò rappresenta uno scatto, non solo nel suo esotismo, ma anche formale, tale da trasformarlo in un pittore che disprezza la forma per raggiungere l’arcano che sente nei suoi segni. E così Van Gogh, negli ultimi nove anni, al sole della Provenza, arroventa tutto con il suo segno psicotico, mentre fintantoché si cimenta nel tentativo della “buona pittura”, che peraltro non sa fare, resta un pittore modestissimo, buio, fosco, torvo.

A proposito di buio, quanto è importante la luce nelle sue opere?

Anche se artificiale - in fondo io lavoro in un bunker - la luce è fondamentale. Ogni volta mi auguro che un’aura psichica risolva le mie opere, altrimenti sarebbero delle banalità. E ripenso alle bottiglie di Morandi, in cui quello che dà loro un senso è  lo sguardo che le colloca in un’aura temporale, peraltro non esistente, grazie non soltanto al segno dell’autore, ma anche alla sua luce.

Quanta emozione e quanta ragione sono presenti nelle sue opere?

La ragione è importante, soprattutto nella gestione della vita di un pittore che, secondo me, può essere paragonata a quella di un calciatore che se si allena, fa nella giornata le sue corse, i suoi scatti, il suo lavoro in palestra, sta a dieta, frequenta le donne con parsimonia, è già a un buon punto; se poi su queste basi si innesta il genio, allora abbiamo il campione, altrimenti si parla del Ronaldo di oggi, dieci chili in soprappeso e fine dei giochi. Per un pittore – e non parlo di chi mette la nonna su una sedia e le fa fotografie, attorciglia le rotaie del tram, o si appende agli alberi - è la stessa cosa: va a letto presto la sera, non beve e non fa uso di droghe, altrimenti il risultato è modesto.

Dipinge direttamente sulla tela le sue opere?

Assolutamente no, le preparo con grande cura e grande attenzione. Prima disegno, poi ricalco oppure ingrandisco con una tecnica di sviluppo a quadratini molto antica.

Quali sono gli elementi costitutivi della sua pittura?

In primis la perizia tecnica, la mia tensione morale è verso la perizia tecnica, dopo ben venga la genialità, se c’é.

La famiglia mi sembra rappresentare un elemento fondamentale nell’arte di Paolo Giorgi.

Sì, e non solo perché appare nella stragrande maggioranza delle mie opere. Anche spiritualmente la presenza di mia moglie e di mia figlia influiscono sui miei quadri.

Che tipo di rapporto ha con l’amicizia?

Scomodo. Essendo io una persona molto fedele, mi trovo male in un mondo dove si va sempre più verso un’ottica di utilitarismo sfrenato: se le persone hanno una necessità si fanno in quattro, superato quel momento….Io poi sono un inurbato, come peraltro mia moglie, toscana anche lei, e non abbiamo qui parenti. Tutte le nostre conoscenze sono relativamente recenti, mentre negli anni  mi sono reso conto che le grandi amicizie della vita si radicano in una stagione dell’esistenza molto precoce. Quindi, se si vive sempre nello stesso posto, si hanno maggiori possibilità di avere e conservare amicizie. Io ho qualche amico in Toscana, la terra dove sono nato, qui a Roma ho tante conoscenze, ma amici…..pochi.

Oltre alla pittura, si è dedicato a qualche altra forma di arte?

Agli acquarelli. Da poco ho finito una serie di acquarelli per il 150° anniversario della nascita di Puccini, un evento importante per un accanito melomane quale io sono, appassionato in particolare del Mozart “italiano” delle “Nozze di Figaro”, “Così fan tutte”, “Don Giovanni”, “Idomeneo”, e di Richard Wagner. Mi dedico molto agli acquarelli senza considerarli un genere di “serie B” e anche in questo campo detesto lo schizzo, l’effettaccio, opero con gli acquarelli con la stessa attenzione che dedico alla pittura.

Qual è il suo rapporto con l’Eros?

É una cosa che mi interessa furor di misura, moltissimo e in tutte le componenti. Ha avuto sempre una preponderanza spudorata in tutta la mia vita.

E il Sacro?

Lo incontro in una zona recondita, arcana, della natura, che non ha nulla a che vedere con il credo religioso, mentre invece sempre più si risolve nello stupore dell’accadimento naturale.

A quando la prossima mostra di Paolo Giorgi?

Allo stato attuale non ho in previsione nulla, visto che nel 2007 ho fatto ben due esposizioni a Roma, una all’interno della sede della Banca Esperia a Piazza di Spagna, e una alla “Ca’ d’Oro” in maggio per la “Primaverile dell’Argam”, l’associazione delle gallerie romane. In questa occasione ogni galleria invita ad esporre un autore di qualità. E io sono stato chiamato da Porcella, proprietario della “Ca’ d’Oro”, con un po’ di miei quadri.

Esiste un sogno che ancora non ha realizzato?

Sono tanti, troppi, e crescono con il crescere dell’età.

 

 
     
  
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