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VINCENZO SCIAMÉ: “MI SENTO COME UN ALBERO, CON LE RADICI NELLA MIA SICILIA E LA CHIOMA A ROMA”
 
     
 

Le sue opere sono il frutto di sogni a occhi aperti. “E una liberazione”, aggiunge con un filo di voce l’artista siciliano, da oltre trent’anni trapiantato a Roma. Lo incontriamo nel suo studio pochi giorni dopo l’inaugurazione di una sua “personale” ad Agrigento, dedicata a Pirandello e intitolata “La luna nel Caos”. “Una liberazione – continua Sciamé - di quello che tu hai dentro e che preme per uscire fuori. Come si libera dalla pietra una forma che è chiusa al suo interno. Quella forma esiste, é là dentro, tu la devi soltanto tirare fuori”. E la manipolazione della materia, dell’argilla in particolare, ha caratterizzato le sue prime esperienze, quando, a poco più di cinque anni, chiese a don Calogero, maestro vasaio del suo paese di origine, Sambuca di Sicilia, un po’ di argilla per i suoi primi lavoretti.

Maestro, allora fu il lavoro di questi artigiani di Sambuca ad accendere la sua passione per l’arte?

Da un punto di vista pratico forse sì, ma la vera ispiratrice dei miei primi lavori l’avevo in casa, era mia madre. Faceva la sarta, ma aveva tali qualità che, trasferite nel mondo di oggi, avrebbero potuta trasformarla tranquillamente in una stilista. Sapeva disegnare, tagliare, cucire, lavorare con l’uncinetto, con l’ago e con la macchina. Era lei che, sebbene ancora bambino, mi coinvolgeva chiedendomi di realizzare dei disegni per i suoi lavori.

Ha lasciato la sua terra per venire a Roma a metà degli anni ’70. Resta qualcosa di quella Sicilia della sua infanzia?

Tutto, perché con il cuore sono lì ancora oggi. Mi sento come un albero, con le radici nella mia isola e la chioma a Roma. Quella terra mi ha dato tutto e resta dentro di me in ogni momento della mia giornata. Mi capita di sorridere quando qualcuno, osservando le mie opere, si lamenta di non vederci la Sicilia. Forse vorrebbe che dipingessi soltanto fichi d’india e arance. Io, invece, vedo la mia terra dappertutto: la vedo in una vecchia donna con il velo in testa, la vedo nel mare, la vedo osservando un Cristo crocifisso. Non sono mai stato interessato a dipingere un agrumeto per se stesso. Se in una mia opera c’è qualcosa di strettamente attinente all’iconografia classica siciliana, è lì soltanto perché ha un valore simbolico.

Tante esperienze le sue, per una ricerca artistica che ha vissuto momenti diversi.

Sì certo. Dopo aver iniziato da bambino a copiare i grandi maestri del passato, come Leonardo, già durante il periodo scolastico vissuto all’Istituto d’arte di Palermo ho subito per un certo periodo l’influenza della pittura d’azione americana, soprattutto di De Kooning, e di Vedova. Per poi restare affascinato, a metà degli anni ’60, dall’opera di Francis Bacon. Un maestro, di cui ho tentato di capire la lezione, senza però mai cercare di imitarlo.

Cosa l’ha allontanata dall’Action painting e dalla pittura astratta?

Il fatto che era diventata una moda. Molti, a un certo punto, iniziarono a improvvisarsi pittori, magari sparando il colore con la pistola ad aria compressa. A quel punto ho detto no, perché la pittura non è spargere colori - a sporcare una tela siamo capaci tutti - ma piuttosto dire qualcosa attraverso il pennello. E poi è anche una questione di tecnica. Prima di gettare colori su una tela, si deve saper disegnare una mano, anche soltanto una foglia, ma alla maniera di Caravaggio, andando aldilà del visibile. Da qui è nato il mio ripensamento e la mia spinta verso un modello di arte figurativa che prendesse spunto da tutto quello che mi circondava.

E da allora hanno avuto inizio i cicli di Sciamé.

Uno dei primi è stato Metamorfosi di un amore, iniziato con una cartella di acqueforti che poi ho sviluppato anche pittoricamente. In seguito sono rimasto colpito dalla tragedia greca, ho letto tutte le opere di Eschilo, Sofocle ed Euripide, e sono stato varie volte a Siracusa per vederne alcune in quel teatro magico. Tre di queste tragedie mi hanno poi fornito spunti di pittura: l’Edipo Re, l’Ifigenia in Aulide e, soprattutto, la Medea, i cui temi ho sviluppato ampiamente allestendo ben cinque mostre a Palermo, Siena, Verona, Ravenna e Caltanissetta.

Con la metà degli anni ’70 un nuovo cambiamento.

Esatto, perché quello è il periodo dei Giochi a mosca cieca, una serie di opere che ho esposto soprattutto a Torino. Seguito, tra ’75 e ’86, dal Pittore e le modelle e Bradisismi, quest’ultimo un omaggio, un po’ particolare, a una Roma immaginata nel momento in cui viene sommersa dalle acque. Una Città Eterna non più eterna in un periodo in cui l’Italia era politicamente e socialmente con l’acqua alla gola. In questo stesso periodo chiudo con una tavolozza dominata dai verdi e dagli azzurri.

Alla fine degli anni ’80 altri due cicli importanti: Finzioni di rossi silenzi e Nelle stanze della memoria. Parigi è invece il punto focale di un altro momento del mio percorso artistico, Le ore dei desideri, seguito da un ciclo più breve, Dialoghi di amorosi silenzi e da I fiori del lago, a inizio 2000, tema quest’ultimo che culmina con una grande esposizione all’Assemblea regionale siciliana, a Palermo.

E arriviamo ad oggi….

Sì, con i giorni dell’amore, un ciclo che ancora prosegue, sebbene sia stato interrotto da Omaggio al Gattopardo. Personaggi e luoghi, un momento particolare culminato in una mostra a Santa Margherita Belice, proprio nel palazzo del Gattopardo, dove Visconti girò alcune scene dell’omonimo film.

Vincenzo Sciamé, oltre che alla pittura e alla ceramica, si è dedicato ad altre forme di arte?

Io prima di ogni cosa, di solito, disegno. E poi dipingo, scolpisco, modello. Perché la scultura non l’ho mai abbandonata, è come un amore che tengo segreto, o perlomeno sono molto pudico nel parlarne. Non ho mai fatto mostre di scultura, però a Cisterna di Latina, alla fine degli anni ’80, ho realizzato una “Via Crucis”, quattordici pannelli nella chiesa di San Francesco d’Assisi, tutti a bassorilievo. Nella stessa chiesa ho poi dipinto, nel ‘92/’93 l’intera abside, un murale di 60 mq. Ho anche lavorato il cemento armato, il bronzo e la ceramica. E continuo a lavorare l’argilla, il mio primo amore. Non ho mai scolpito il marmo, ma mi piacerebbe farlo. Non l’ho cercato, ma se vedo un pezzo che mi ispira….

E con la grafica?

Ho fatto esperienze di serigrafie, litografie, acqueforti, acquetinte, ho realizzato negli anni ’70 una cartella, Metamorfosi di un amore in 30 esemplari di acqueforti, stampate da me dopo aver acquistato un torchio. Poi ho realizzato un’altra cartella con sei acqueforti, Donne di Sicilia, insieme a Enzo Lucci, poi una cartella su Catullo per i duemila anni della sua nascita. Mi piaceva tanto quel lavoro che un giorno sono finito all’ospedale per aver respirato troppi acidi. Negli ultimi tempi purtroppo la grafica ha perso terreno anche a causa di “certi giri” poco puliti che ne hanno minato la credibilità.

Le arti figurative, oggi in Italia, godono di buona salute?

C’è molta confusione, e non solo nel nostro Paese. Cerco sempre di aggiornarmi, di capire, anche andando all’estero, e francamente non sono molto entusiasta di quello che vedo e percepisco. C’è confusione perché domina la precarietà. Una confusione mentale voluta da chi dirige, dagli operatori, dalle gallerie, dai critici, voluta da chi ha interesse a promuovere i suoi protetti a discapito degli altri. A me questo tipo di rapporto non piace. Io sono interessato alla cultura, non al lucro. Parecchio tempo fa i rapporti non si basavano soltanto sugli interessi economici, una volta il critico andava alla ricerca dell’artista, lo voleva scoprire, oggi questo modello culturale è quasi del tutto scomparso. Ora tutti vogliono i soldi, a tal punto che il bisogno di denaro ha sostituito il bisogno di cibo.

Nel passato Tomasi di Lampedusa e il suo Gattopardo, oggi Pirandello nei luoghi dove è nato. Ricorre spesso la letteratura siciliana nella sua opera.

Sì, ma nel caso di “La luna nel Caos”, la mia mostra che si è aperta lo scorso 20 aprile al “Museo Biblioteca Pirandello” di Agrigento, il mio omaggio è anche a un “quasi collega” perché tutta la famiglia Pirandello dipingeva e, oltre Fausto, anche Luigi si dilettava nella pittura. In questa esposizione ho voluto evidenziare, in particolare, l’elemento lunare che, importante nell’opera letteraria di Pirandello, lo è divenuto nel corso degli anni anche nella mia pittura. Sin da piccolo, raccontava mia madre, quando vedevo la luna nel cielo delle calde serate estive siciliane, mi agitavo nella culla perché volevo afferrarla. Da adulto poi, per molto tempo questo elemento non è comparso nei miei quadri, salvo spuntar fuori all’improvviso in una mia tela degli anni ’80, dedicata a Roma. Qui, in una Piazza del Campidoglio priva del Marco Aurelio e dei palazzi circostanti, si staglia una falce di luna su di un mare in burrasca che le fa da sfondo.

Come nasce un’opera di Vincenzo Sciamé?

Nel corso di una lotta estenuante contro il tempo. Perché le mie opere io le realizzo ancora con le mani, non attraverso il computer. E il tempo, tiranno, non mi consente di tradurre in pratica tutto quello che sento dentro di me. Dovrei essere più veloce, ma non ci riesco. Così mi capita di perdermi alcune visioni, alcuni sogni ad occhi aperti che avrei voluto tramutare in opere.

Che rapporto stabilisce con quanto sta realizzando?

Si tratta sempre di un legame di amore, in cui è il cuore che mi tiene legato a ciò che sto facendo. Anche perché amo il mio lavoro, soffro se sto lontano dai miei colori, dal mio pennello, dalla mia matita. Non posso vivere a lungo senza di loro, mi sento come se mi mancasse l’ossigeno. Posso resistere una settimana, due al massimo, poi devo tornare al contatto con loro.

Dopo una vita nell’arte e per l’arte, chi è oggi Vincenzo Sciamé?

Una persona che ha poco da rimproverarsi perché ha sempre dato in maniera onesta. Onesto con se stesso e con il suo lavoro. Ho realizzato tante idee e molte me ne restano ancora da tradurre in realtà, anche se non credo che riuscirò a metterle in pratica tutte. D’altra parte, bisogna pur lasciare qualcosa agli altri.

Esiste un sogno che ancora non ha realizzato?

Sì, quello di essere capito e valutato per quello che valgo, nella speranza che comunque quello che ho fatto possa servire agli altri. Da buon rotariano, se scoprissi che nel corso della mia vita non sono stato utile a nessun altro, oltre che a me stesso, morirei male.

 

 

 

 
     
  
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