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La pittura è stata sempre il suo grande
amore. Dal ‘58 le ha dedicato la vita senza “se” e senza
“ma”, non vedendo altro che la sua tela e il mondo
meraviglioso di cui voleva parlarci. Un luogo dove la
rappresentazione fisica – in seguito all’incontro con le
geometrie non euclidee - ha lasciato ben presto il posto
soltanto a segno e materia. Il protagonista di questa
esistenza in cui l’arte, in modo totalizzante, si pone al
centro del mondo di un individuo, é Salvatore Provino, il
pittore siciliano, nativo di Bagheria e concittadino di
Guttuso, di cui, fino all’8 gennaio, è in corso alla
Galleria Michelangelo di Roma la mostra Fuga dallo
sguardo. A quasi cinquant’anni dai suoi esordi, abbiamo
incontrato l’autore nel suo splendido studio in Trastevere.
Maestro, dopo tanti anni, ricorda come, lei e l’Arte, vi
siete incontrati?

In modo
naturale. Disegnare, e poi dipingere, é stata l’unica cosa
che ho saputo fare sin da quando ero bambino. Questa fu la
molla che poi mi spinse, molto giovane, a venire a Roma. A
Bagheria, dove sono nato, non si poteva certo vivere di
pittura. Ma io avevo saputo che un mio compaesano era
divenuto famoso a Roma, e allora scelsi questa città.
Il suo
compaesano era un certo Renato Guttuso….
Sì, anche
se soltanto qui a Roma l’ho conosciuto personalmente. Quando
ci hanno presentati io stavo facendo il calzolaio per
vivere, ma lui, subito dopo aver visto alcuni miei quadri,
mi disse: “Chiudi con quel lavoro. Ti aiuto io”. Mi trovò un
posto da sorvegliante alla galleria “La Nuova Pesa”. Dormivo
nel magazzino, quando era possibile, ma molte volte mi
addormentavo all’interno della galleria stessa. Immaginate
cosa vuol dire vivere accanto ai Sironi, ai Picasso, ai
Léger, ai Guttuso. Per me era tutto strepitoso, era la mia
scuola e cercavo di “rubare” da questi autori quanto più
possibile. Così per due anni. Poi però decisi che non potevo
continuare in quel modo, presi in affitto quindi una
stanzetta in via della Croce e mi misi a dipingere dalla
mattina alla sera. Grazie ad alcune conoscenze, iniziai a
vendere i miei quadri, aiutato anche da altri pittori, amici
e conterranei, come Lino Tardia. A lui devo molto, per
avermi presentato Capolla, della “Galleria di Roma”, con il
suo fiuto eccezionale per le opere e gli artisti di valore,
e Consorti, nella cui galleria ho fatto la mia prima
personale a poco più di vent’anni.
Da qui
la svolta.
Sì, da
quel momento, e per molti anni, mi sono dedicato soltanto a
dipingere. Fino a che non sono stato chiamato a insegnare
Pittura, all’Accademia di Palermo durante la “primavera” di
quella città, quando il sindaco era Leoluca Orlando e
arcivescovo era il cardinale Pappalardo. Sentii il dovere di
fare quel lavoro che durò circa due anni. Poi me ne andai.
Sono tornato a insegnare a Palermo nel ’98, e tutto per uno
“scherzo” di alcuni amici, che a mia insaputa mi iscrissero
a un concorso che ho poi vinto. Da quattro anni mi sono
avvicinato a casa e sono professore a Napoli.
Che
rapporti ha con i suoi allievi?

Stupendi,
non solo da insegnante di pittura, ma anche da insegnante di
vita. Parliamo di tutto, forse per loro sono più un padre
che un professore.
Trova
differenze tra i ragazzi di vent’anni fa, quando ha iniziato
a insegnare a Palermo, e quelli di oggi?
Questi
sono un po’ più, mi si passi il termine, “tontoloni”. Spesso
hanno avuto tutto dalle loro famiglie, mancano così di
spirito di sacrificio, non hanno “fame”. Certe volte li devi
quasi prendere per l’orecchio e scuotere per fargli
comprendere che la vita non è soltanto mettere la scheda nel
telefonino o tenere l’i-pod nelle orecchie. Nello stesso
tempo sono più preparati di quelli di venti anni fa.
Le
origini siciliane, quanto e come hanno influito sulla sua
arte?
Credo
molto, seppure non in senso stretto. Mi hanno dato una
cultura contadina, un bagaglio che ho portato a lungo con
me, almeno fino a quando la città ha iniziato a scalfire
alcune mie certezze per cui il bianco era bianco e il nero
era nero. Qui ho preso coscienza di temi come violenza e
guerra che non erano propri dell’universo contadino in cui
ero cresciuto, dove contavano invece il pane, la legna, la
vita nei campi.
Ma
anche in Sicilia c’era, e c’è tuttora, la violenza. Quella
della mafia soprattutto.
Sì, ma io
vivevo in un altro mondo, in cui ci si occupava di cose e
fatti concreti, null’altro. Sono cresciuto nella famiglia
contadina di mio nonno materno perché ho perso mio padre
quando ero molto piccolo, e mia madre ha dovuto sempre
lavorare a servizio per mantenerci. Non ho mai avuto una
vera famiglia, lì mi sentivo ben accetto, ma sentivo anche
che quella non era la mia destinazione.
Oggi
cosa le resta della Sicilia?
Quella
terra mi ricorda sempre un dramma, il mio dramma, la mia
sofferenza infantile. Quando torno resto sempre affascinato
dai suoi colori, ma lì non vorrei mai più abitare. Sono
ormai del tutto estraneo al modello di vita siciliano, non
sopporto più quel modo di fare per cui si dice qualcosa
sottintendendone qualcun’altra. Resta comunque un bel
rapporto con il mio paese, Bagheria, che il prossimo anno
ricorderà con un’esposizione i miei cinquant’anni da
pittore.
Quanto
sono state “forti” le influenze di Guttuso e Bacon sulla sua
arte.
Guttuso
non è mai stato un mio riferimento artistico. Mi ha molto
aiutato dal punto di vista pratico e affettivo, ma il suo
modo di fare arte non mi ha mai interessato. La mia pittura
aveva bisogno di una drammaticità che Guttuso ha avuto solo
ai suoi esordi e l’ho cercata attraverso il colore e la
materia.
Bacon
invece è stato per me una scoperta romana. Quando iniziai a
girare per questa città, dipinsi molte macellerie, con scene
di animali squartati, ma “guardavo” a un pittore come Chaim
Soutine, non conoscevo invece Francis Bacon, finché non fu
organizzata una sua mostra qui a Roma. Allora vidi le sue
immagini, quei corpi aperti, quei volti brutti e scomposti.
Naturalmente mi avvicinai alla sua pittura, anche se c’era
qualcosa di lui che non mi piaceva: Bacon distruggeva
l’umanità, mentre io, pur sentendo la violenza insita al suo
interno, ho sempre voluto ricostruirla, darle una chance. Le
mie figure, seppur barcollanti, continuavano comunque a
camminare.
Poi
l’incontro con la geometria non euclidea.
Fu un
caso. Per prepararmi a un’esposizione di soli disegni per la
galleria “Ca’ d’Oro”, iniziai a lavorare su tutto, finché un
giorno non vidi su un giornale una figura geometrica e
decisi di riprodurla. Il risultato fu straordinario. Allora
riguardai la foto sul quotidiano e vidi questa didascalia:
“Disegno esplicativo delle geometrie non euclidee”. Di qui
la ricerca di informazioni e l’incontro con Lucio Lombardo
Radice, uno studioso che avevo già conosciuto nell’atelier
di Guttuso. Da lui iniziai a ricevere nozioni, non
matematiche, ma piuttosto filosofiche, sulle geometrie non
euclidee che mi hanno permesso di guardare dentro le cose e
di non aver più bisogno di rappresentare il contadino o
comunque di raccontare la quotidianità. Dovevo soltanto fare
lo sforzo di pensare in maniera tridimensionale la tela.
Come
nasce un’opera di Provino? Che rapporto si instaura tra voi?
Il mio
lavoro ha tempi molto lunghi, perché in primo luogo non
lavoro su tela bianca. Prima la faccio nera, o marrone
scuro, come fondo, poi inizio, dopo che si è asciugato, a
lasciare delle impronte su questa base e, di seguito, delle
materie che poi vengono lavorate con delle velature. Non
disegno nulla prima, tutto avviene sulla tela, mi getto in
“mare” e navigo senza bussola lasciandomi condurre dal
lavoro. Tutta la mia vita è pittura, tutto io debbo alla
pittura. È stata la pittura a spingermi a interessarmi di
biologia, fisica, al punto che ormai lo studio è un bisogno
senza interruzione. Negli anni ’60 leggevo Sartre, Marcuse,
Baudelaire, Neruda, oggi invece vado a studiare cosa sono le
stringhe, cosa sono le brane, perché all’interno di questi
concetti apparentemente solo matematici c’è una filosofia
che io voglio conoscere. Attualmente posso navigare in
quello spazio infinito che sono le mie tele soltanto grazie
alla matematica, il luogo ideale dove le mie due nature,
quella spirituale e quella materiale, trovano una loro
sintesi e io, con un piede sulla terra, posso librarmi
nell’aria e lanciarmi all’avventura.
Questa
svolta quando si è determinata?
Nel 1976
ho smesso di dipingere le figure geometriche con il
chiaroscuro, alla maniera classica, alla caravaggesca,
imparando con il tempo che già disegnando ero nella
tridimensionalità; ma mi mancava ancora il senso della
materia, di quell’unica materia che compone il sasso come il
cielo. Capito ciò, non avevo più bisogno di dipingere il
cielo e il sasso, bastava che io scrivessi dentro la tela
questi segni e loro poi mi avrebbero indicato il percorso.
Un po’ come la lumaca che strisciando lascia un segno:
ripercorrendo a ritroso questo segno si ripercorre il
movimento della lumaca. I miei segni sulla tela sono i segni
del movimento del corpo che io voglio rappresentare.
Al
momento di vendere una tela, soffre nel separarsene?

Noo…io non
mi affeziono mai alle mie opere. Anzi, mi dà fastidio se i
quadri rimangono invenduti, perché non dipingo per me, ma
per gli altri. È anche chiaro però che nel tempo ho maturato
la curiosità di rivedere qualche mia opera degli esordi..
Desiderio che ho potuto realizzare nel 2003 in una mostra a
Castel dell’Ovo, a Napoli, dove è stata rappresentata tutta
la mia vita artistica. Entrando per la prima volta in quello
spazio e vedendo tanti miei quadri tutti insieme ho capito
che si trattava di un percorso, il mio, in cui la partenza
coincideva con il punto di arrivo, il cerchio completo della
vita di un uomo che nasce, cresce e alla fine ritorna nella
pancia della madre.
Da cosa
trae ispirazione?
Da tutto,
sono curioso da morire, ogni cosa che vedo mi insegna
qualcosa, non riesco a restare indifferente di fronte a ciò
che vedo. La pittura è il mio modo di scoprire il mondo, la
molla che mi spinge sempre innanzi.
Come
capisce che un’opera è finita?
Mi succede
qualcosa. Dentro lo stomaco sento qualcosa picchettare. Da
quel momento non debbo più toccare il quadro. Finora ha
sempre funzionato.
Cosa
rappresenta oggi la pittura per lei?
Un
linguaggio dal valore ancora enorme, ancor più in un momento
in cui molti invece stanno cercando di abbandonarla per
andare verso altre tecniche espressive, come le
installazioni. Io voglio lavorare nella bidimensionalità, in
quella finzione che è la pittura. Quando dipingo non
rappresento nulla di vero, i volumi non ci sono, i vuoti non
ci sono, ma dentro c’è un mondo di cose che gli altri
possono ammirare, realizzate secondo i principi della
bidimensionalità. Lombardo Radice mi diceva: “Non sarebbe
possibile dipingere le geometrie non euclidee su di una
superficie bidimensionale, si dovrebbero dipingere le sfere.
È anche vero, però, che si è dipinta la prospettiva, c’è
stato il Cubismo, quindi chi dipinge, attraverso il
meccanismo dell’illusione, ha la possibilità di fare tutto
quello che vuole”.
Quali
sono gli elementi costitutivi della pittura di Salvatore
Provino?
Colore,
segno e, soprattutto, tanta fatica.
Oltre
alla pittura, si è dedicato ad altre forme di arte?
No, ho
soltanto realizzato una decina di sculture in legno perché
avevo bisogno di vedere in maniera tridimensionale gli
elementi geometrici di cui mi occupavo e mi sono servite per
rendermi conto che quello che dipingevo era più
tridimensionale della scultura. Tutto questo mi ha ancor più
convinto della mia scelta di essere soltanto pittore.
Qual è
lo stato della Pittura, e delle arti figurative in genere,
oggi in Italia?
Esiste
ormai una stretta connessione tra arte e mercato. Questo ha
fatto sì che negli ultimi tempi si vendano più opere che nel
passato. Con valori in alcuni casi esageratamente gonfiati
per oggetti che non hanno nessuna dignità artistica, ma
vengono pubblicizzati come qualcosa di importante. Con il
risultato che oggi un’opera non la si guarda per quello che
è, ma la si prende in considerazione soltanto dopo averne
conosciuto il prezzo, specie quando è elevato.
Cosa
pensa del secolo appena trascorso?
Il
Novecento ci ha proposto di tutto. Ora si impone una sintesi
perché, pur riconoscendo il grande valore delle loro opere,
non sono certo che l’orinatoio di Duchamps o un taglio di
Fontana rappresentino in maniera esaustiva l’intero secolo
scorso.
Provino
e l’Eros, Provino e il Sacro

L’eros è
tutto per me, il mio lavoro ruota tutto intorno a questo
elemento. Il sacro invece, nel mio modo di vedere le cose,
lo scopro soltanto attraverso la materia che manipolo
durante il mio lavoro. Ogni gesto che compio quando dipingo,
quello per me rappresenta il sacro.
A quasi
cinquant’anni dalla sua prima “personale”, chi è oggi
Salvatore Provino?
Sono
stato, e resto, un pittore che crede in quello che fa, oggi
ancor più di prima, quando ero tutta passione, come una lava
in ebollizione. Attualmente invece, grazie all’età e
all’esperienza maturata, riesco a “volare” in zone che non
conosco, calandomi in situazioni che per me sono
straordinarie e mi danno una carica emotiva enorme.
Parliamo ora della mostra in corso alla Galleria
Michelangelo a Roma.
È una
selezione della mia “personale” organizzata a maggio al
Castel dell’Ovo di Napoli e più esattamente la parte, circa
30 opere, che questa galleria ha acquistato e deciso di
mostrare al pubblico.
Ha un
sogno che non ha ancora realizzato?
Quello di
essere immortale. So che è difficile, ma ci sto provando
attraverso la pittura. |
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