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Non ha mai accettato di navigare nelle acque tranquille
della routine. Al punto da rischiare tutto a soli 23 anni,
lasciando il “posto sicuro” in una grande società per
gettarsi nell’avventura pittorica. E rifiutare ben presto le
logiche di un mercato molto spesso più attento all’andamento
delle vendite che all’ispirazione di un artista. Una
naturale irrequietezza quella di Franco Mulas che lo ha
accompagnato lungo tutto il suo percorso pittorico, ormai
più che quarantennale e contraddistinto da una serie
continua di fasi ed esperienze, tra loro spesso molto
diverse.
Maestro, tutto iniziò quando…
.
una
mia amica, avevo allora circa 16 anni, mi regalò un libro
sulla vita di Modigliani. Da quel momento sono stato preso
dalla passione e ho iniziato a disegnare, copiando i grandi
artisti. Ricordo di aver fatto le donne a Tahiti di Gauguin
e di aver riprodotto alcuni quadri di Van Gogh. Ma dovevo
anche pensare a vivere, così iniziai a lavorare alla
Technicolor italiana come grafico cinematografico,
dedicandomi in particolare a quelli che allora si definivano
“trucchi” e oggi sono universalmente conosciuti come
“effetti speciali”.
E
poi la svolta.
Sì,
nel ’61, a 23 anni, mollai tutto per fare il pittore
professionista. Una decisione che ancora mantengo ferma,
anche perché sarebbe ormai un po’ troppo tardi per
cambiarla. Da quel momento non ho fatto altro che dipingere,
rifiutando anche di insegnare, quando mi è stata offerta
questa possibilità.
Dopo Gauguin e Van Gogh, chi altro ha influenzato la sua
arte?
Per
anni l’opera di Max Ernst mi ha coinvolto, in particolare la
sua tecnica pittorica. Picasso invece mi ha sempre
emozionato dal punto di vista dell’approccio al quadro, per
quella sua maniera di iniziare un’opera in un modo e
cambiarla, prima della sua fine, dieci, venti, cento volte.
E poi Boecklin e De Chirico. In questo momento sono
innamorato della Secessione Viennese e di Klimt in
particolare. Insomma….. non sono un pittore “fedele”.
Una
“irrequietezza” che corre come un filo rosso lungo tutta la
sua esperienza artistica.
Sì
perché ho sempre amato lavorare per cicli. Ne apro uno, mi
ci tuffo, mi appassiono, poi quando sento che si sta
esaurendo la vena, lo chiudo e ho subito bisogno di
inaugurarne un altro. Questo mi pone, a volte, in una
situazione di difficoltà con il mercato. Da tempo ho dovuto
rinunciare ai miei mercanti, per uscire così da una
situazione che mi stava stretta, mi poneva dei problemi
quando volevo chiudere una mia fase artistica perché,
magari, quel mio prodotto ancora si vendeva bene. Accettando
certe regole del mercato, un pittore si può arricchire
economicamente, ma rischia di impoverirsi artisticamente.
Perché ha intitolato il suo primo ciclo Week-end?
In
quegli anni, era il ’66, rimasi colpito da questo Paese che
si metteva in fila in auto e ne trassi ispirazione per una
serie di opere sulla domenica degli italiani in cui andavo
alla ricerca di nuova oggettività, in un figurativismo che
si rifaceva al cinema, di Godard e di Fellini in
particolare. Erano “fotografie” intese come “flash”, attimi
dopo cui tutto poteva ancora accadere. Una caratteristica
che la mia pittura conserva tuttora: allora come oggi blocco
l’immagine e guardo alla situazione immediatamente
successiva. Per ottenere ciò usavo, e uso ancora,
un’accortezza tecnica ripresa dalle imperfezioni di stampa
nelle foto dei vecchi rotocalchi, con i colori che non
combaciano perfettamente e creano così delle piccole
sfocature.
Poi
arrivarono gli anni della contestazione giovanile.
Il
ciclo che mi ispirarono quei tempi di rivolta diede origine
a una mostra intitolata Occidente, visto che le
origini della protesta provenivano da ovest, dalla Francia e
prima ancora dagli Stati Uniti.
Per
quei quadri usai una maschera macchiata di rosso, simbolo
del sangue che qualche volta scorreva durante le
manifestazioni, la stessa che utilizzavano gli studenti
francesi per sfilare la notte a centinaia dopo gli scontri
con le forze di polizia. Erano opere che si differenziavano
da quelle del Realismo, allora dominante in Italia, per il
loro richiamo alla sospensione metafisica. E non erano
dipinti propagandistici. I poliziotti lì potevano essere
antichi guerrieri, non semplici agenti di pubblica
sicurezza. Negli anni successivi ho preso a dipingere il
ritorno all’ordine e un certo “allenamento” alla violenza da
parte di intere famiglie che, spinte dal senso di
insicurezza dei primi anni ’70, andavano a sparare nei
poligoni. In quelle opere dialogavo un po’ anche con la Pop
Art, ne respiravo il clima culturale, mantenendo però il
contatto con le mie radici europee perché non ci si può
riferire direttamente a certe correnti artistiche di
Oltreoceano saltando tutto quello che è avvenuto in Europa
negli ultimi sette secoli. Così si produce soltanto una
“non-arte” o addirittura quella che io chiamo “arte della
spazzatura”.

Una
critica per certe opere dell’Avanguardia?
Duchamp, gli stessi Impressionisti, hanno sì rotto
l’equilibrio dei loro tempi nei confronti dell’Arte
Accademica. Ma la loro opera si era rivelata dirompente
perché per molto tempo nessuno aveva osato quello che loro
hanno osato. Se poi però per cinquant’anni si ripetono
sempre le stesse “provocazioni”, ecco che allora lo scandalo
lo può tornare a suscitare un semplice quadro ben dipinto.
Non c’é nulla di più noioso dell’Avanguardia quando diviene
Accademia.
E con
l’arrivo degli anni ’70?
Nel
‘75 ho aperto e chiuso in soli dodici mesi un nuovo ciclo di
25 tele, intitolato Itinerari. Nel ‘78 ho fatto
Autoritratto-Identikit, con i tre colori primari, rosso,
blu e giallo sull’idea, molto di attualità in quel periodo,
della ricerca del criminale, del brigatista. L’anno
successivo la soluzione a “identikit” l’ho utilizzata per
L’Albero Rosso di Mondrian, mettendo a confronto la
poesia e il colore lirico dell’artista olandese con la
drammaticità della mia arte.
Siamo però ancora nell’ambito del figurativismo.
Sì e
ne volevo ormai uscire. Così ho inaugurato il ciclo
Finzioni dove il quadro diventa il risultato di qualcosa
che nasce sulla tela, senza bozzetto, né schizzi
preparatori. Si parte dall’impasto materico, da volumi che
ruotano, con una parte illuminata e una parte in ombra,
scura, in un contrasto tra colori caldi e colori freddi.
È
una pittura di “corrosione” della materia, posta a cavallo
tra rievocazione del passato e sogno, in un ambiente quasi
monocromo. E i risultati sono sempre diversi dal progetto
iniziale. In Incontro, ad esempio, un’opera in cui
c’è anche un ricordo di Piero della Francesca, il risultato
non rispecchia
assolutamente l’intenzione da cui ero partito. Ho iniziato
con una serie di pietre, poi sulla destra mi è “apparsa” una
roccia con profilo umano, al che ho “realizzato” che poteva
essere il volto del duca di Montefeltro. Dopo una ricerca
dell’opera di Piero della Francesca sul catalogo, ho deciso
di dare questo titolo al quadro riproponendo quello che
avviene agli Uffizi, dove i ritratti del duca di Montefeltro
e di Battista Sforza sono posti uno di fronte all’altro.
Alla base di questo mio modo di dipingere, un rimescolamento
cromatico del passato che ritorna e coglie l’attimo
fuggente. In Battaglia navale, altra opera di questo
periodo, apparentemente è rappresentato uno scontro in mare,
in realtà nulla di tutto ciò vi è dipinto, comparendo un
coperchio di pentola e un cordone. Ma quello che conta, in
un’opera surreale, è l’impressione e non la realtà.
Da
allora sono ormai trascorsi quasi venti anni. Cosa è
cambiato nell’opera di Franco Mulas?
Molte
cose, anche se fu difficile chiudere quel ciclo perché quei
miei quadri si vendevano bene. Ma volevo tornare a parlare
di modernità - il senso del passato mi stava iniziando a
pesare - senza per questo però riprendere la pittura
figurativa. E così arriviamo al mio discorso pittorico
attuale, in cui rifiuto la standardizzazione
dell’Avanguardia. Molti pittori figurativi hanno risposto
alle sue “provocazioni”, con una sana pittura accademica,
dove tutto sembra molto vero, i paesaggi ricordano quelli
dei quadri dell’Ottocento. Ma anche questo è qualcosa di già
fatto, già visto, basta andare alla Galleria d’Arte Moderna
di Roma e osservare un quadro di Segantini o di Corot. Così
si trascura tutto quello che noi oggi abbiamo di nuovo,
tutto quello che nel Novecento abbiamo immesso dal punto di
vista cromatico. Un oggetto moderno, una lattina gettata in
un torrente, ad esempio, trasmette delle vibrazioni di luce
che influenzano in maniera nuova la natura circostante.
Questo lo sostenevo già nei miei quadri di Week-end,
dove il dipinto sembrava un foglio di plastica che assorbiva
e rimandava i riflessi della luce e dei colori. Allora lo
facevo in maniera più didascalica, schematica, oggi la mia
ambizione è dire le stesse cose, scavando però più in
profondità. Negli anni ’90 sono quindi uscito da quella che
ormai consideravo una gabbia. E l’ho fatto con la mostra
Big-Burg, il Grande Panino, in cui “fette” di
paesaggi si sovrapponevano uno sull’altro come nei sandwich
americani, appunto.
E dopo
il Grande Panino?
Ho
puntato molto sulla natura, dove quasi sempre quello che è
bello alla vista è anche nocivo. Questa mia pittura si
caratterizza per una bellezza visiva, estetica, ma anche per
una crudezza dei suoi significati. Il ciclo attuale
s’intitola Schegge e i suoi quadri non sono più
costruiti in studio, ma piuttosto nascono direttamente
dall’osservazione della natura. Esiste un posto fisico che
io vado a visitare spessissimo e attraverso la cui
osservazione ho compreso che la natura non è così
figurativa, non è così verista, ma è molto più astratta alla
vista e molto più concreta a livello di riflessioni indotte
in chi la sa osservare. Questo ciclo inizia partendo da uno
sguardo al passato, addirittura al Seicento, in cui via via
immetto nuovi colori, ad esempio un rosso simile a quello
del ketchup.
Oltre alla pittura, si è mai dedicato a qualche altra forma
di arte?
A
parte la grafica, ho voluto sempre e comunque essere un
pittore.
Essere nato e vissuto a Roma ha aggiunto qualcosa alla sua
storia artistica?
La mia
“romanità” mi ha dato tutto durante il ciclo Finzioni.
In quel periodo, spesso prendevo il motorino e me ne andavo
al Foro Romano dove riuscivo a estraniarmi da tutto quello
che mi circondava e magicamente tornavo indietro di secoli.
Noi romani, circondati da tante vestigia del passato, siamo
dei privilegiati. Senza per questo dimenticare quello che
c’è appena fuori Roma. Io, ad esempio, sono molto
interessato alle zone etrusche che si trovano a nord della
città.
Che
rapporto instaura Mulas con i suoi quadri?
Nei
momenti migliori, e attualmente sono in una di queste fasi,
è un rapporto di amore/odio. Oggi mi accade come in
gioventù, l’insicurezza della ricerca e gli ostacoli che il
pittore si crea per poi superarli fanno sì che tutto,
incluse le sconfitte, divenga entusiasmante. Il pericolo lo
vedo invece in quelle fasi in cui subentra il tran tran
professionale, in cui si fanno sempre le stesse cose perché
lo richiede il mercato.
Come affronta la tela bianca?
Ancora
oggi, che non sono più giovanissimo, non ho risolto del
tutto questo problema.

A
volte il pittore si trova in una condizione strana: è come
se fosse condannato in carcere avendo a disposizione solo
una tela e pochi colori. Ha paura di rovinare questo suo
unico “foglio”. In questi casi si dovrebbe essere più
coraggiosi e accettare la possibilità di un insuccesso,
anche perché, in realtà, c’è sempre un’altra tela bianca
pronta. LO stesso questo fenomeno si presenta si può
riprestare quando l’artista ha già steso più della metà
dell’opera ed é soddisfatto di quello che ha fatto. In quel
momento scatta una sorta di prudenza per non rovinare quello
che di buono si é già fatto. E può capitare che la
creatività si blocchi, non usando più, come diceva Max
Ernst, “la mano libera dal cervello”.
E
allora Mulas come ne esce?
A
volte cancellare tutto diventa una liberazione. A volte
invece il problema si risolve all’improvviso quando, dando
per scontato che il quadro ormai sia perduto, ritorno a
essere disinvolto come all’inizio del lavoro.
Chi è
oggi Franco Mulas?
Un
pittore che si ritiene ancora giovane e a cui piace esporre
i quadri con i giovani.
Esiste un sogno che vorrebbe veder realizzato?
Poter
continuare a cambiare quando ne sento il bisogno. E per
questo mi auguro di stare bene in salute per i prossimi
venti, trent’anni, anche perché questo mio nuovo modo di
dipingere necessita di una certa energia fisica. Io non sto
seduto come quel grande artista che era Carrà, ho bisogno di
camminare. Ma per ora va tutto bene.
A
quando il prossimo appuntamento con la sua pittura?
Sarà
certamente alla fine di questo ciclo, in una grande
esposizione pubblica che spero di riuscire a organizzare qui
a Roma. |
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