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LA “MELANCHOLIA” FATALE DI ANNIBALE CARRACCI

 
     
 

Morì a soli 49 anni il più noto esponente della famiglia dei Carracci, consumato da quella che allora venne definita “melancholia” e oggi, senza alcuna esitazione, sarebbe chiamata depressione. Uno stato patologico a cui non fu estraneo il confronto con l’altro gigante di quegli anni, Caravaggio, ma a cui fece certamente da detonatore la scarsa considerazione del suo mecenate, il cardinale Odoardo Farnese, che nel 1595 lo aveva convinto a lasciare la natia Bologna per venire a Roma.

E quanto poco ricevesse dal cardinale (in denaro e stima), malgrado la ventata innovativa che in quegli anni aveva portato la sua pittura “dal vero”, lo testimoniano le parole di un suo conoscente del tempo, Giovanni Battista Bonconti: “Annibale Carrozzi non altro ha del suo che scudi dieci di moneta al mese e una stanzetta alli tetti, e lavora, e tira la carretta tutto il dì come il cavallo e fa logge, camere e sale, quadri e ancone”. Tutto questo nel 1599, mentre Annibale Carracci era impegnato con il fratello Agostino a dipingere il soffitto della Galleria di Palazzo Farnese e a Roma si giocava il futuro della pittura italiana, ancora divisa tra il classicismo caro ai Carracci, ispirato a Raffaello, e il realismo duro e puro di Caravaggio.

Trasferendosi a Roma, Annibale sperava di trovare quella libertà di azione di cui non aveva goduto a Bologna. Ma la sorte gli fece incontrare il cardinale Farnese, un ricco e fatuo individuo che si limitò a tenerlo a servizio come un semplice stipendiato, affidandogli mansioni quasi offensive per un artista del suo livello. Un errore di valutazione, quello del cardinale Farnese, che il pittore scontò duramente, cadendo ben presto preda di quella sindrome depressiva che lo avrebbe condotto alla morte. Malgrado ciò, Annibale Carracci (1560 – 1609) è universalmente considerato il più grande tra i pittori bolognesi di tutti i tempi, certamente il più famoso dei tre maestri che portarono questo cognome. E a lui e alla sua opera è dedicata la mostra in corso a Roma al Chiostro del Bramante*, seconda e conclusiva tappa dopo quella al Museo Civico Archeologico di Bologna.

La rassegna romana, eguale a quella felsinea in quasi tutte le opere (mancano soltanto il Mangiatore di Fagioli, il San Sebastiano e la lunetta del Paesaggio con fuga in Egitto) raccoglie in otto sezioni circa 150 capolavori (tra cui 65 dipinti e 80 disegni), selezionati dai curatori Daniele Benati ed Eugenio Riccomini, molti dei quali difficili da ottenere in prestito perché dispersi nei musei di tutto il mondo. Positivo il risultato finale: grazie a questo sforzo di raccolta si è riusciti a ricostruire la parabola artistica di quello che fu definito da molti suoi contemporanei il “nuovo Raffaello”, a tal punto degno del grande Maestro da essere sepolto accanto a lui nel Pantheon. “Vedere uno accanto all’altro i ritratti, i paesaggi, i dipinti di ispirazione sacra e quelli di storia, è l’occasione per far parlare le sue opere”, spiega Benati. “Attraversando le salette claustrali del Chiostro del Bramante – interviene l’altro curatore, Riccomini – si ha l’impressione di trovarsi non a una mostra monografica, bensì a una collettiva di maestri del passato. I suoi quadri sembrano sempre opere di pittori diversi”. Il motivo è che raffigurando il vero, continua Riccomini, “Annibale non è mai uguale a se stesso. Cambiano continuamente i personaggi, la luce, i paesaggi, i ritratti, le allegorie. Riesce persino a individuare il vero nelle opere dei maestri del passato, basti pensare – continua il curatore – alla straordinaria Venere e il satiro, sublime citazione della pittura veneta”, punto di arrivo di uno sforzo tendente a trattare soggetti diversi con stili diversi, unificando in un linguaggio comune i vari accenti caratteristici delle differenti scuole pittoriche tipiche delle molte aree geografiche italiane, dalla veneta alla lombarda, dalla toscana, alla romana. Di questo obiettivo, perseguito con impressionante tenacia per tutta la vita, si rese conto monsignor Giovan Battista Agucchi, interlocutore privilegiato di Annibale e suo primo critico. E per questo lo ritenne il pittore che più di ogni altro, dopo Raffaello, poteva dirsi “italiano”. Una definizione che avrebbe certamente trovato concordi i suoi molti sostenitori che negli anni del pontificato di Clemente VII Aldobrandini lavoravano nei diversi ambiti della linguistica, della geografia, della storiografia e della politica, per la costruzione di una cultura tutta “italiana”, tesa a riunire finalmente le distinte caratteristiche regionali in un progetto nazionale concepito tra Bologna e Roma. Guarda caso, proprio le due città che più hanno influito nella vita del Carracci.

E se Annibale non visse - a differenza del suo “rivale” Caravaggio - in maniera spericolata, pure lui, a suo modo, fu un ribelle, anche se rispettò sempre la grande pittura rinascimentale. “È stato tra i primi, in Italia, a mettersi a occhi aperti e senza pregiudizi di fronte agli aspetti più veri, e perfino brutali della natura umana”, spiega Riccomini, richiamando la scelta di Annibale di lasciare la bottega dove si era formato sui dipinti di Tiziano e di Raffaello, per disegnare dal vivo. “Ogni nudo, ogni testa, ogni frammento di paesaggio – conclude - giunge sulla tela filtrato dal disegno eseguito dal vivo, senza i rigori dell’accademia”. E così in mostra, muovendo dai suoi difficili esordi nella città felsinea, si arriva alla contrastata attività romana, quando Annibale, raggiunge la piena maturità dei suoi mezzi espressivi. Mantenendo sempre un suo tratto caratteristico, che lo distinguerà per tutto il suo percorso artistico: il continuo confronto con il “naturale”. Una scelta che troviamo già nei suoi primi dipinti dal vero, come il celebre Due ragazzi che giocano con un gatto del Metropolitan Museum di New York o il Paesaggio fluviale della National Gallery di Washington, ma anche nei dipinti della maturità, come nella Venere e satiro degli Uffizi. Sarà però soprattutto nelle opere romane che si compirà la sua scelta di coniugare natura e storia. Come negli straordinari affreschi della Galleria di Palazzo Farnese (di cui in mostra sono presenti molti disegni concessi dal Louvre), ma anche in dipinti come Cristo e la Cananea delle raccolte comunali di Parma e il Cristo deriso della Pinacoteca di Bologna. Per queste, e per molte altre opere, i contemporanei giunsero allora a vedere in lui il “nuovo Raffaello”. Ma chi lo ammirava non aveva fatto i conti con una malattia poco diffusa allora, o forse soltanto poco diagnosticata, ma con cui oggi abbiamo imparato a convivere: la depressione. Uno stato patologico tanto grave da impedirgli progressivamente di dipingere, al punto che le sue commissioni poterono giungere a buon fine soltanto grazie alla sua bottega. E quanto difficile fosse la situazione negli ultimi anni di vita di Annibale, lo testimonia un impegno scritto che gli fecero firmare i suoi allievi: frequentare almeno “dui ore ogni dì” la sua bottega. Contratto che probabilmente Carracci, sempre più assente, non rispettò mai. Morì il 15 luglio del 1609 e fu sepolto nel Pantheon, accanto a Raffaello. Aveva 49 anni e nella sua non lunga esistenza era comunque stato capace di realizzare capolavori che lo avevano fatto divenire il più famoso di una famiglia che ha dato molto all’arte, il rifondatore della pittura italiana per la maestria con la quale aveva fuso i valori della natura con quelli della storia.

E in mostra, a chiudere il percorso espositivo, sono presenti alcune delle opere di questa ultima fase, la più triste, della sua vita: il Compianto sul Cristo morto della National Gallery di Londra, e la Pietà del Museo di Capodimonte a Napoli. “Scriver la storia dei Carracci e lor seguaci – raccontava già alla fine del ‘700 Luigi Lanzi – è quasi scriver la storia pittorica di tutta l’Italia da due secoli in qua”, tanto é l’influsso che questa famiglia ebbe sull’arte italiana. E tra loro Annibale era di certo l’autore più importante. Anzi, per Giovanni Pietro Bellori, autore delle “Vite”, egli era l’erede naturale di Giotto, Masaccio e Raffaello, cioè della tradizione più classica della pittura italiana. Insomma, Annibale Carracci fu un umanista (forse l’ultimo umanista) che a Roma cercò un nuovo Rinascimento.

Tanti sforzi però vennero vanificati, di fronte a molta parte della critica e al grande pubblico, dalla personalità prorompente, dal punto di vista umano e artistico, del suo “rivale”, di quel Caravaggio con cui la sorte, in un perfido gioco, lo a costretto a convivere per sempre nella Cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo. E questa “sconfitta” contribuì alla sua malattia, a quella depressione che portò alla morte, ancora giovane, quello che resta pur sempre uno dei più grandi interpreti della pittura italiana di inizio ‘600, la cui parabola raggiunge il suo apice con la realizzazione della Galleria Farnese e i suoi disegni preparatori.

 

*Fino al 6 maggio 2007, in via della Pace. Orario: tutti i giorni dalle 10.00 alle 20.00, il sabato fino alle 23.00, la domenica fino alle 21,00. Chiusa il lunedì. Ingresso: intero 9 euro, ridotto (martedì per tutti) 7 euro, scuole 4,50 euro. Info allo 0668809035 e sul sito www.chiostrodelbramante.it.

 

 

 

 
     
  
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