Pensa con i sensi senti con la mente: 52° edizione della Biennale di Venezia

 

 
 

 

Anche quest’anno la Biennale di Venezia può considerarsi fuori e dentro i suoi confini, un fenomeno pullulante di buone e di cattive notizie: in entrambi i casi, circoscrivere e riconoscere il valore aggiunto di questa rispetto alle passate, ci aiuterà a capire in cosa e perché si tratta di una edizione, la 52esima, per molti aspetti eccezionale. 

 

Il 10 giugno scorso, la Biennale delle Arti visive si è inaugurata ai Giardini di Castello, in presenza non di Francesco Rutelli, presente a Venezia nei giorni precedenti e già di ritorno nella capitale, ma del suo sottosegretario Daniele Gattegno Mazzonis. La celebrazione è stata preceduta oltre che dal discorso introduttivo, da un primo evento di per sè rilevante, ovvero l’assegnazione del Leone d’Oro alla Carriera assegnato al fotografo africano Malick Sidibè, così a delineare ulteriormente un percorso già intrapreso dallo stesso curatore Robert Storr, che nel sensibilizzare la Biennale verso il continente africano, ha realizzato un nuovo padiglione in questa nuova edizione. Anche i numeri fin’ora hanno parlato chiaro in fatto di novità: ad iniziare con la cifra ben superiore alla media annuale di 30 mila partecipanti durante i primi tre giorni di Vernice, per proseguire con il numero di tessere vendute agli aspiranti partecipanti, talvolta perfino sprovvisti di inviti inaugurali ma evidentemente assetati di arte. Le cifre sono raddoppiate rispetto a due anni fa, sono stati di fatto 1400 e non più 700 i numerosi visitatori appassionati, tra Americani, Inglesi e Australiani che hanno insistentemente e con successo, cercato di varcare i cancelli dei Giardini. Anche un fruttuoso escamotage ha permesso l’acquisto per 130 euro della Gold card, per cui oltre all’ingresso ridotto si garantivano sconti su altre manifestazioni di contorno; per le coppie, la Platinum card, 300 euro, con la quale le riduzioni si estendevano anche a quella per l’acquisto del catalogo della Biennale. E per restare in tema di eccezionalità, anche per gli addetti ai lavori come i giornalisti, è stata raggiunta la cifra eccezionale di 3200 accrediti, di cui circa la metà stranieri. Dopo i numeri, adesso è l’arte a far parlare di se: troppa direi e oltremodo esuberante, la voglia di esasperarne il concetto quale strumento di denuncia alla violenza. Ci ha rimesso in questo modo l’arte stessa, l’unico mezzo a parer mio, che almeno in questa sede internazionale, poteva liberarci seppur momentaneamente dai nostri incubi quotidiani. Il Padiglione spagnolo, “Paradiso Spezzato”, con le foto di rettili morti e dolcemente seppelliti; le ombre sfumate di animali “insonni”ma che piuttosto paiono privi di vita; il video Performance di Los Torreznos, dove la rabbia e la disperazione fungono da uniche protagoniste. Accordo con Robert Storr, curatore della 52esima edizione, nel voler parlare di arte come di legame tra sensi e ragione e di come questa dicotomia non debba influire sulla nostra personale percezione dell’arte. Ma allora perché tirare in ballo nomi importanti come Ezra Pound, Friederich Nietzche e Marcel Proust e a questi affiancare loro citazioni in cui si parla di “Salto di gioia” ed “Eroica allegria” riallacciandosi infine all’immagine di “Paradiso” secondo le parole del curatore spagnolo Ruiz de Samaniego, come di “un’accecante immagine scultorea di luce poetica” quando ciò che si percepisce visitando il Padiglione spagnolo è tutt’altro che Poesia.

Una lunga fila precede l’ingresso al Padiglione Tedesco: è ormai il terzo giorno che la sfuggo nell’attesa che possa diminuire ma poi mi decido a non rimandare oltre. Dopo trenta minuti di curiosa attesa, mi trovo in una sala insieme a poche persone numericamente selezionate - ecco forse il motivo della fila - faccia a faccia con un “Ready-Made” della Monnalisa di Marcel Duchamp riveduto e corretto (chi si ricorda a questo proposito dei due vandali che due anni fa, nei pressi della Stazione di Santa Lucia, deturparono con un paio di baffi scuri la gigantografia realizzata per la Biennale dal russo Georg Pusenkov, aggiungendo di pugno con uno spray “This is NOT Art!” ?), per poi avvicinarmi a delle piccole creaturine, forse alieni o forse bimbi deturpati tone- sur- tone distesi su degli sgabelli argentati, per poi rischiare di inciampare su dei corpi morti distesi sul pavimento, mentre degli altri, delicatamente sezionati vengono poi tenuti sospesi in aria da fili sottili. Infine, tra un teschio versione grand soirèe -visti i diademi che lo ricoprono giocosamente- e qualche altra citazione questa volta animal – macabra, in una sala in cui sono presenti una sfilza di trolley, di valigie e di oggetti tipici di chi sta viaggiando, l’artista tedesca Isa Genzken, non può proprio redimersi dal ricordare di come oggi anche viaggiare sia pericoloso, distogliendoci immediatamente dall’istintiva associazione viaggio= svago e novità.

 

Diversamente,  emozioni forti, sensazioni positive, l’idea di ritorno all’arte intesa come qualcosa di materico, di manuale e creativo, talvolta perfino terapeutico, me lo hanno dato le opere di artisti di altre nazionalità. Il padiglione greco ad esempio, nonostante il titolo “The End” ed un drappo tutto nero che ostacolava l’entrata per tutta la sua lunghezza, seppur solo apparentemente ma con l’unico fine di riprodurre l’oscurità all’interno, mi ha catapultata in una dimensione onirica e nonostante il gran caldo dovuto a quel drappo che l’aria non faceva traspirare, anche di inusuale benessere. L’artista Nikos Alexiou, rivolgendosi ad un mondo fragile ed effimero, che qualche altro artista si è sforzato tanto di voler rappresentare in questa Biennale e in tutta la sua drammaticità, introduce piuttosto il linguaggio artistico come metafora esistenziale. Egli crea una installazione modulare, ispirata al mosaico presente nel “Catholicon”  Monastero di Iviron sul Monte Athos, e con questa intende riavvicinare se stesso e noi spettatori ai ricordi di un’esperienza vissuta in prima persona in quella comunità monastica, rendendoci improvvisamente protagonisti di “uno scenario suggestivo sotto la distesa infinita del cielo”.

Herbert Brandl, artista del padiglione austriaco, espone circa 20 dipinti che a detta del curatore Robert Fleck sono opere di levatura autenticamente internazionale. Qui l’arte trionfa davvero, accolta su delle tele di 4 mt x 3 mt circa, i suoi colori intensi sembrano riflettere luce come se illuminati dal sole naturale. Non si tratta di arte figurativa ma nemmeno di puro astrattismo: davanti ai quadri azzurri ci si sente trasportare nei mari tropicali, è possibile intravedere ampi cieli caldi e perfino sentire il rumore fluttuante di acque come di cascate solo intenzionali. I toni sfumati del verde inducono a respirare l’aria mossa da fronde immaginarie o a cavalcare distese senza confini. Qui il concetto di arte potrebbe ben rispondere alla necessità sostenuta da Storr, di qualcosa che a tutti è possibile sperimentare attraverso i puri  sensi ed intuire con la mente, affinché ci possa guidare nella presa di coscienza del proprio io in tutta la sua complessità. Un messaggio più profondo di riscatto per la propria identità viene dal Padiglione della Repubblica Popolare Cinese, qui rappresentato da quattro donne dai venti ai quaranta anni d’età: insieme combattono la loro società “maschiocentrica” e silenziosamente avanzano le loro posizioni di artiste, strette attorno ad un solo denominatore comune per il quale vogliono rinominare gli oggetti e i simboli della loro vecchia identità con tutto ciò che modernamente, talvolta anche estremizzandone il concetto, potrebbe oggi meglio rispecchiarne le loro mentalità in evoluzione. Dalla riproposta di tessuti originali che portano indietro alle tradizioni e alle mode da sorpassare, alla realizzazione di notevoli videoinstallazioni che per tema hanno quello della solitudine, fino alla rappresentazione di un tutto nuovo urban- style- of -life ben rappresentato dalla gioventù contemporanea, attraverso citazioni di realtà virtuale e di altri mezzi più tecnologicamente vicini ad una new generation orientale, “dell’electronic entertainment e della cultura pop”. Loredana Raciti, artista italiana presente nell’ambito degli Eventi Collaterali alla Biennale, presenta la “Stanza d’Artista” a cura della Soprintendenza al Polo Museale Romano e del Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, con la presentazione in catalogo del Professor Claudio Strinati. La sua installazione, realizzata all’interno della prestigiosa cornice del Presidio Militare di Riva degli Schiavoni a Venezia, fa sì che l’artista occupi uno spazio stabilito, liberando la sua creatività. Un insieme di simboli, si racchiudono in questa stanza, tra cui il “letto giapponese con un cuscino di legno”, atto a significare il concetto di sacrificio che Loredana Raciti ha della sua vita di artista. Così ci ritroviamo davanti ad una donna occidentale che per la prima volta paragona la sua esistenza a quella della donna orientale, da sempre simbolo di rigore e di dolore esistenziale. Una sorta di esortazione iconografica, quella che la Raciti in questo ambito preciso, sembra proporre inconsapevolmente alle artiste orientali presenti in Biennale, e non solo, ad indossare quel paio di stivali volanti, presenti tra gli altri simboli in questa “Stanza d’Artista”, “per cavalcare la libertà espressiva e artistica del proprio pensiero” finalmente e forse per sempre.

 

E’ già venerdì sera, Venezia è animata da un aria di festosa confusione, è proprio il caso di dire, con gente che viene e gente che va su e giù dai vaporetti. Una piacevole serata, brutalmente interrotta da un’installazione che avrei preferito non incontrare sui miei passi, diretta verso i portici del Mercato del pesce: un’artista esordiente, ricopre con secchiate di finto sangue, una sessantina di comparse distese al suolo agonizzanti e scenograficamente vestite con mute di neoprene nere. Ancora le brutte notizie, quel valore aggiunto alla Biennale di circostanze negative che danno di che parlare, torna dunque a fare capolino intorno alla mezzanotte di sabato, quando i vigili del fuoco raggiungono San Paolo, dove un uomo sembra, stia prendendo fuoco. Solo più tardi, si scopre che a bruciare era un manichino, installazione della Biennale, realizzato dal cinese Jin Shan, già conosciuto con il nome dell’ “urinatore di Shangai”. Lasciamo alle spalle le polemiche sostenute anche da Vittorio Sgarbi, relative allo spettacolo teatrale che debutterà fra qualche giorno all’Arsenale di Venezia, nell’ambito della Biennale Danza, il “Messiah Game”, che ha per oggetto l’ “Ultima Cena” in chiave erotica e sadomaso; oppure quelle che riguardano l’installazione - fino a domenica ancora visibile in Campo Santa Maria Formosa - dell’artista ucraina Oliga Milenty, sorte per l’accusa  di avere provocato ferite più e meno gravi ai passanti, trattandosi di una struttura fatta con lastre di vetro zigrinate e in rilievo. Di questa installazione notturna, che al calar della luce si illumina di blu e di arancione a da cui partono i suoni di musiche distorte e voci  di persone, si dice che la Biennale, ne avrebbe potuto anche fare a meno. Ma fortunatamente le Calli sono “teatro” di cose anche più divertenti come è stata sabato la “Marataombra” che vede aderire più di 200 partecipanti alla maratona del vino per un intero giorno, Hosteria dopo Hosteria, seguita la domenica a San Donà, nella Venezia Orientale, da una seconda maratona dedicata al cibo e ai buongustai. E ancora passeggiando a passo sostenuto per le calli, intenti a raggiungere per tempo quella conferenza stampa piuttosto che quel vernissage, ci si può piacevolmente scontrare con personalità vip: tra i numerosi giunti a Venezia, il direttore della Tate Modern Nicholas Serat, Thomas Krens della Guggenheim, David Ross del Moca di Los Angeles o galleristi di fama internazionale come Larry Gagosian, Paula Cooper o Bruno Biscofsberger. Robert de Niro è approdato per la prima volta con le opere del padre Robert de Niro Senior e subito ripartito la notte stessa l’inaugurazione, dopo aver dichiarato con un pò di malinconia ai giornali di non avere saputo apprezzare il lavoro del padre fino a solo qualche anno fa. Presente anche tutta la famiglia Pinault al completo per la grande serata alla Fondazione Cini, in onore della Mostra “Sequence 1”  a Palazzo Grassi, della loro sorprendente collezione di Arte Contemporanea; evento questo, forse tra i più mondani delle tre serate inaugurali della Vernice. Presente anche il Sindaco Massimo Cacciari, già in azione per la città alle nove del mattino seguente, in vista della prossima inaugurazione due ore più tardi, della retrospettiva dedicata al maestro Emilio Vedova e curata dalla Fondazione che porta il suo nome. Tante le mostre dedicate a Emilio Vedova nei giorni caotici di Biennale: prima fra tutte l’ “Omaggio di Baseliz” al padiglione Venezia, con cui l’artista tedesco ha presentato sei grandi opere, realizzate unicamente per questo evento, e con le quali egli immagina di intraprendere un dialogo con l’artista scomparso. In mezzo a queste grandi tele, una sola opera, un disco di Vedova, come fosse un simbolo, l’emblema attraverso cui si consolida idealmente e per sempre, quella sintonia di pensiero che ha legato negli anni questi due grandi protagonisti dello scenario contemporaneo ed internazionale, che ospita oggi la Biennale. All’indomani, il sabato mattina, si era più di 400  fra invitati, giornalisti, amici della famiglia Vedova e altri estimatori veneziani, giunti con le proprie barche o con le navette appositamente organizzate dalla Biennale e in partenza dalle Fondamenta Nuove dirette all’isola di Sant’Erasmo. Curatore della mostra Fabrizio Gazzarri, che durante la presentazione è stato definito dal presidente della “Fondazione Emilio e Annabianca Vedova”, Alfredo Bianchini, come “un figlio ideale” per l’affetto che l’artista da poco scomparso e che anche sua moglie Annabianca, sentivano per lui da sempre. Gazzarri, prima che Vedova morisse, era riuscito a fargli vedere realizzato il sogno dell’avvenuto restauro della Torre Massimiliana, pronta per accogliere le sue opere. L’opera di Vedova lo stesso giorno è stata presentata anche al Guggenheim dove oltre alla selezione di dieci opere “Monotipi” è stato presentato il volume “Monotypes”, una raccolta degli ultimi suoi lavori, a coronamento di quell’amicizia che per lungo tempo ha legato Emilio Vedova a Peggy Guggenheim. Tra il succedersi di avvenimenti, alcuni dei quali abbiamo provato almeno a citare, altre questioni hanno riguardato da vicino l’organizzazione vera e propria della Biennale, luogo in cui l’arte come è intesa da Storr non è più “dichiarazione filosofica, sociologica, politica” ma bensì è autonoma con il proprio linguaggio, laddove “ogni opera è lì a palare di sé”. Se dunque l’arte è intesa come esperienza totale e “diretta” e onnicomprensiva di linguaggi diversi, temi, materiali, idee e sensazioni, Emilio Vedova, artista protagonista già di numerose Biennali, quest’anno con la sua opera è l’artista che meglio si colloca in questa eccezione. Lo confermano ancora una volta le parole del Sindaco Cacciari,  che troppo poco distaccato da quel senso di dolore da cui è pervaso per la recente perdita dell’amico Emilio, descrive commosso i lavori esposti nelle diversi sedi: sono ciascuna  frutto di una “grande tensione lirica che si accompagna al furore apocalittico, alla precisione e nitidezza del segno e del gesto che emerge dal caos dei mondi possibili, mai incarnati e forse mai incarnabili.” Sono opere che riportano “l’energia del colore veneziano che divora la luce e ad un tempo” evocano “la nostalgia mitica per la luce stessa che freme in particolare nella sua straordinaria opera grafica” . La realizzazione di questa Mostra è uno dei primi impegni della Fondazione in collaborazione con l' “Istituzione Parco della Laguna” che ha anch’essa preso parte collaterale alla Biennale, esponendo nella sede i “Carnevali” di Vedova. Apprendiamo così come l’artista scomparso descriveva la sua idea di Carnevale usando parole come “emotività”, “sfrenatezza”, “drammaticità” e ci rivela un insieme di emozioni e sentimenti da sempre presenti nei suoi lavori, capaci oggi e per sempre di rafforzare l’idea emblematica di una Venezia misteriosa e un po’ magica, unica come la stessa esistenza di questo grande artista, vissuta “in una sorta di indissolubile coniugazione fra vita ed arte”. 

 

Miriam Castelnuovo